Carissimi fratelli ammalati, sono contento di stare, in questo meriggio, qualche minuto insieme con voi.

Oggi celebriamo la giornata dell’ammalato per vivere non un momento di mestizia, non un momento di tristezza sia pur sublimata, non una liturgia consolatoria. No! Non stiamo qui col muso lungo. Non stiamo qui a lamentarci. Non stiamo qui a presentare l’antologia dei nostri dolori. Non stiamo facendo la mostra delle nostre disavventure di salute.

Siamo venuti per esprimere una grande solidarietà.

Prima di tutto con Gesù Cristo. Il Risorto. L’amante della Vita. Egli è il capo del nostro sindacato. Sì, è il capo del sindacato degli ammalati, dei sofferenti, e quindi, oggi, vogliamo esprimere a lui tutta la nostra prossimità.

E poi vogliamo esprimere anche tanta solidarietà verso gli altri fratelli che stanno accanto a noi, che soffrono dolori più atroci, o meno violenti o uguali ai nostri: non ci è dato di fare misurazioni. Qui ognuno si porta in gola il suo groppo di amarezze che poi si scioglie in un empito di speranza, di gioia, di luce: doni della Pasqua del Signore.

Ebbene, che cosa vogliamo fare, oltre che pregare per noi, per la nostra buona salute, per la salute degli altri, per la salute dei nostri cari? Che cosa vogliamo fare oggi? Come intridere la nostra vita nei sapori della Risurrezione?

Oggi il mondo corre sui binari dell’efficienza: produrre, produrre, produrre… Scivola sulle strade a scorrimento veloce del produttivismo: se non produci, se tu non fai niente, se non riesci a costruire nulla nella società, a che servi? Oggi il mondo vola sulle grandi carreggiate delle realizzazioni concrete per cui chi non produce, chi non è efficiente, chi non mette sul mercato della vita i valori così banali delle cose, dell’affare, del business… non conta nulla. Oggi, purtroppo, questo è il criterio predominante: il binario dell’efficienza.

Di fronte a questo meccanismo dell’efficienza che stritola i più deboli, che cosa stiamo a fare noi ammalati? Che senso ha il nostro continuare a vivere? Costretti su lettighe di dolore, handicappati, gente lacerata da mille sofferenze fisiche prodotte da un tumore selvaggio (“il drago che rode dentro”, diceva Davide Maria Turoldo che è morto l’anno scorso proprio per il male del secolo, come lo chiamano. Speriamo che sia il male del secolo! Perché avrebbe ormai pochi anni di vita. E forse potremmo farcela pure noi a scavalcare questi anni che ci mettano a riparo nel secolo nuovo). Dunque, dicevo: che stiamo a fare noi, gente lacerata da tanto dolore che ti immobilizza e ti inchioda sulla sedia a rotelle? Gente stritolata da un male congenito, che affonda le radici proprio alle origini dell’esistenza: ciechi nati, sordomuti, poveri, handicappati, oligocefali? Gente schiacciata dalle conseguenze nefaste di un incidente stradale, oppure mutilata sul lavoro, che ti ha stroncato i progetti nei quali si erano riposte mille speranze e tante attese così puntigliosamente disegnate a tavolino? Che ci stiamo a fare? C’è pure per noi un ruolo da giocare? Non con il compianto di chi ci sta attorno e neppure col pregiudizio di chi pensa alla nostra funzione come a qualcosa di estremamente marginale, e non di essenziale, per la vita del mondo?

Che cosa siamo noi: mendicanti in cerca di pietà? Poveri in cerca di surrogati di speranza?

A questo punto vorrei far esplodere fortissimo il mio “No!”. No, non è così.

Vedete, vi dico una cosa. Se noi dovessimo lasciare la croce su cui siamo confitti (e non sconfitti), il mondo si scompenserebbe. È come se venisse a mancare l’ossigeno nell’aria, il sangue nelle vene, il sonno nella notte.

La sofferenza tiene spiritualmente in piedi il mondo. Nella stessa misura in cui la passione di Gesù sorregge il cammino dell’Universo verso il traguardo del Regno. In questo, Gesù è il nostro capo. Bellissimo, stasera, sentircelo al centro, Gesù. Lui confitto su un versante della croce e noi confitti, non sconfitti, sull’altro versante della croce, sul retro.

Gesù, comunque, è in mezzo a noi. È toccabile. E quando abbiamo bisogno di lui non è necessario urlare: basta chiamarlo, perché sta appena dietro di noi. Gesù è il nostro capo. È il capo delle nostre attese. E noi, turbe di ammalati, abbiamo lui come responsabile del nostro sindacato.

Noi dovremmo sentirci fieri di questa chiamata: perché si tratta di vocazione. È Gesù il centro. È lui che conta. È lui il capo. È lui che sta seduto accanto a noi quando gridiamo a causa del dolore, oppure ci muoviamo sotto le flebo, oppure non riusciamo a stare fermi né sopra un materasso di lana né sopra un letto di piume. È lui che si mette accanto a noi e ci dice che ci ama e che ci vuole bene.

Da una parte c’è lui. E dall’altra c’è lei, Maria, la nostra dolcissima madre, la regina degli infermi. Salus infirmorum: colei che viene incontro e mette la mano sulla fronte dei suoi figli febbricitanti e percepisce subito la temperatura senza aver bisogno di termometri. E non ha bisogno di chiedere per sapere del nostro stato di salute, perché lei lo afferra al volo guardandoci negli occhi.

E ora, perché il nostro lamento si trasformi in danza, vorrei dirvi ancora: non dobbiamo vergognarci della nostra malattia. Non è qualcosa da tenere nascosta. Non è un tabù.

È quella parte della nostra carta di identità che ci fa rassomigliare di più a Gesù Cristo. Come facciamo a tenerla nascosta? E una tessera di riconoscimento incredibile, straordinaria. Non dobbiamo vergognarci della nostra malattia. Dobbiamo esserne fieri.

E dobbiamo lottare contro la malattia. Dobbiamo lottare, mai rassegnarci. Mai rassegnarci, come non si è mai rassegnato Gesù.

Gesù, Maria, non sono state mai delle persone rassegnate. Hanno sempre combattuto fino all’ultimo. E anche per noi ci deve essere lo stesso coraggio. “Se sappiamo lottare in piedi dobbiamo saper lottare anche in ginocchio”, diceva Seneca a un gladiatore.

A tutti voi dico: coraggio.

Il Signore Gesù è con noi. Tanti amici sono con noi. Ci vogliono bene.

Non abbiamo paura della solitudine! Perché nel mondo ancora non si è disseccata la buona radice delle anime generose.

E poi, per vivere con fede la nostra dolorosa vicenda, ricordiamoci che la malattia non è il frutto dei nostri peccati personali. Qualcuno potrebbe pensare questo e dire: “Signore, cosa ho fatto io per meritare tutto questo?”, oppure, come dicono i nostri anziani, “tutti io te li ho messi i chiodi sulla fronte perché dessi a me tanto dolore?”.

La malattia non è frutto dei nostri peccati personali. Perché il Signore non dà la sofferenza e il dolore a seconda dei meriti e dei demeriti di una persona. Tutto ciò che riguarda la sofferenza è un mistero che ci trascende e che va oltre di noi.

E poi – lo sto sperimentando io in questi giorni – con la malattia dobbiamo fare l’esperienza dell’umiltà, dell’abbandono, dell’affido.

Chi è abituato a una certa fierezza, ha pudore a lasciarsi servire dagli altri. Teme di dare fastidio ai parenti, agli amici. Soffre quando vede che gli altri si trovano in disagio per lui. Non sperimenta quell’abbandono disteso nelle braccia dell’amico, cioè di chi ti vuol bene. Nelle braccia del Signore forse sì, ma nelle braccia dell’amico no.

Allora dobbiamo fare esperienza dell’abbandono. Questa esperienza dell’abbandono nelle braccia di chi ti vuol bene è segno. Segno e forse anche strumento, dell’abbandono totale nelle braccia di Dio.

In ciò consiste la fede teologale.

Tanti, tanti auguri carissimi fratelli.

Il Signore vi benedica insieme con tutti coloro che vi stanno accanto e che vi danno una mano perché la vostra salute rifiorisca.

LETTERA DI DON T. BELLO AGLI AMMALATI

In giro circolano paure riguardo a questo sacramento e persino molti praticanti fanno fatica a chiederlo quando nella vita si fa necessaria la consolazione di Dio. La vita fragile, debole, ammalata ci mette in crisi.

Questo sacramento è un sostegno che ci viene offerto dal Padre per mezzo dei sacerdoti.

Non abbiate paura a chiedere e a contattare la comunità quando nella vostra casa vi trovate a vivere l’esperienza dolorosa della sofferenza.

I sacerdoti sono contenti di venire, di accostarsi a chi piange e di pregare per loro e con loro.

Possiamo pensare anche a una visita periodica.

Per ogni bisogno chiedete in parrocchia.