Carissimi,
forse questa volta sarà più difficile alzarsi. No, non intendo solo levarsi dal letto che, personalmente, mi è sempre risultato difficile. Alzarsi non è soltanto un movimento del corpo, è anche una postura del cuore, un atteggiamento di ciò che ci abita dentro. Quando è accasciato il cuore, il corpo difficilmente lo segue.
Alzarsi vuol dire speranza, vuol dire reazione, vuol dire ricominciare, vuol dire che la fiducia non è al rosso, che i motivi per vivere sono molto più belli e importanti di quelli che ci inchiodano a lamentarci, vuol dire che ancora possiamo e vogliamo fare qualcosa, vuol dire vivere.
Alzare il corpo alla fine non è una grande impresa. Ciò che dobbiamo tirare su è l’animo accasciato a motivo di tante cose che vediamo, sentiamo e che opprimono lo spirito.
C’è nel mondo una scandalosa disuguaglianza che non accenna a diminuire, anzi diventa sempre più sfacciata; ci sono milioni e milioni di uomini, di donne e di bambini che muoiono di fame, che non possono curarsi, che non riescono a fermarsi nella terra a loro più cara perché diventa sempre più inospitale; ci sono guerre assurde accese qua e là nel mondo, di cui solo alcune vengono raccontate, e le vittime di tutte le guerre sono i poveri, i deboli, i bambini, gli anziani, gli ammalati…; ci sono tantissimi posti nel mondo dove le persone vengono sfruttate, calpestate, usate, vendute… sono troppi quelli che per sopravvivere sono costretti a subire cose indegne; tantissima gente è costretta a partire lacerando così tante relazioni che sono la più grande ricchezza della loro vita; e anche tra noi moltissimi partono, tanto che gli italiani che vanno via sono più di coloro che arrivano, a malo modo, sulle nostre coste; c’è il terrorismo che con frequenze imprevedibili devasta la vita e la pace della gente; le droghe vecchie e nuove che aprono a scenari inquietanti; i suicidi che aumentano con frequenze allarmanti e su cui c’è un silenzio inquietante; la violenza continua, efferata e angosciante sulle donne che ci lascia tutti smarriti, impauriti e indignati, una violenza che non riusciamo a fermare e che sembra una epidemia che ci è sfuggita di mano; un inverno demografico che ci porta più a celebrare la morte che a celebrare la vita; le mafie che sembrano infiltrate dovunque e, come una piovra con i suoi tentacoli, arrivano dappertutto; l’interesse e il profitto che sembrano sbeffeggiare la gratuità e soffocarla con la loro arroganza, il guadagno che sembra occupare ogni spazio del cuore e della casa, della città e del mondo; i poveri che diventano sempre più invisibili e scomodi; i muri e i fili spinati che aumentano sui confini; le cifre oscene che si spendono per gli armamenti e i pochi spiccioli che si adoperano per promuovere e salvare la vita…
Alzarsi non è facile. Ma lo dobbiamo fare. Con la novena non siamo chiamati a ripetere un rito che, probabilmente, ci affascina, ma siamo chiamati a educare il cuore. A tenerlo sveglio. A non farlo sprofondare nella tristezza e nella rassegnazione. Anche se ci sentiamo persi bisogna alzarsi e gridare finché il cielo non ci risponderà. Non dobbiamo dargli pace, dobbiamo insistere, ostinati dobbiamo continuare a bussare finché non ci risponde. E dobbiamo svegliarci pure per capire tutto quello che possiamo e dobbiamo fare noi, senza aspettare da altri ciò che spetta a noi, difendendo così la nostra tranquillità. Alziamoci dal letto ricordandoci che non stiamo soltanto mettendoci in piedi, ma stiamo rinunciando alla morte, alla rassegnazione, alla tristezza, a uno stordimento continuo e sciocco, a una cecità che ci rende ignobili, a una vita miserabile, a un’anestesia totale e permanente che non ci permette di riconoscere chi abbiamo vicino.
Alziamoci. Questa delicatezza Gesù l’ha avuta con tanti. Possa aiutare ciascuno di noi a non rimanere a terra. Venga a tirarci su perché a dispetto di tutto il nero che vediamo possiamo accendere sempre una luce e attendere con serena fiducia i cieli nuovi e la terra nuova.

Il Signore vi benedica
p. Emanuele, p. Francesco e p. Amedeo

PRESTO ARRIVERAI E SARÀ GIORNO

Le prime luci dell’alba, l’odore della cera delle candele, gli occhi ancora un po’ assonnati… Questo e tanto altro è ciò che caratterizza la Novena di Natale. Nove giorni che si rivivono ogni anno ma che, puntualmente, finiscono sempre col regalare emozioni profonde, autentiche.
Si comincia con la fatica di alzarsi dal letto quando ancora neanche il Sole ha deciso di farlo; poi si continua pensando alla dura giornata lavorativa, alle ultime interrogazioni, alla lezione universitaria, alle vacanze che sembrano non arrivare mai; ma poi, una volta varcata la soglia della chiesa, ancora avvolta nella semi oscurità, tutto acquisisce senso e si comprende il vero motivo che ha spinto tutti a ritrovarsi lì, insieme: Gesù Cristo! Ecco allora che quel ritornello “Nella notte, o Dio, noi veglieremo” si leva alto da tante bocche che, in quel momento, sembrano una sola.
E poi i bambini! Sì, sono proprio loro ad accendere non soltanto le candele che illumineranno tutta la chiesa, ma anche gli animi delle sorelle e dei fratelli riuniti, coi loro sorrisi, i loro sguardi intensi, la loro speranza. “Con le lampade, vestiti a festa”. Non si tratta, tuttavia, di un’attesa vana, inconsistente. Colui che è atteso darà una nuova luce a ciascuno di noi, una luce capace di mostrare la via che conduce al Padre, alla sua misericordia, al suo amore. “Presto arriverai e sarà giorno”.
Dunque, facciamo in modo che questo Natale non sia come tutti gli altri, che non si riduca soltanto a grandi abbuffate e ad auguri falsi, perché altrimenti staremmo perdendo il senso autentico di questa Solennità. Cerchiamo, come Cristo, di farci anche noi piccoli, umili, poveri, bambini, per guardare il mondo con occhi nuovi, occhi che sappiano emozionarsi ancora per una stretta di mano, per una carezza affettuosa, per un abbraccio che consola. Che questo tempo d’avvento ed i nove giorni di preparazione al Natale possano farci comprendere quanto sia importante fermarsi, allontanarsi da tutto il rumore che ci circonda ed adorare il Signore che nasce, nuovamente, nelle nostre anime, in mezzo a noi. E allora sarà festa grande, saranno abbracci, sarà vita!

Giuseppe De Fazio

AIUTAMI PERCHÉ IMPARI A DANZARE SOTTO LA PIOGGIA

Carissimi tutti, abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai.
Ci siamo bagnati, infreddoliti, ma ringrazio le tante persone che si sono strette attorno a noi per portarci il calore del loro abbraccio.
Mi scuso per l’impossibilità di dare riscontro personalmente, ma ancora grazie per il vostro sostegno di cui avevamo bisogno in queste settimane terribili. La mia riconoscenza giunga anche a tutte le forze dell’ordine, al vescovo e ai monaci che ci ospitano, al presidente della Regione Zaia e al ministro Nordio e alle istituzioni che congiuntamente hanno aiutato la mia famiglia.
Mia figlia Giulia, era proprio come l’avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma.
Oltre alla laurea che si è meritata e che ci sarà consegnata tra pochi giorni, Giulia si è guadagnata ad honorem anche il titolo di mamma. Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà: il suo spirito indomito ci ha ispirato tutti.
Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne, vittime proprio di coloro avrebbero dovuto amarle e invece sono state vessate, costrette a lunghi periodi di abusi fino a perdere completamente la loro libertà prima di perdere anche la vita. Come può accadere tutto questo? Come è potuto accadere a Giulia?
Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione…
Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali.
Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne, e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto.
A chi è genitore come me, parlo con il cuore: insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte.
Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro.
Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci connette in modi straordinari, ma spesso, purtroppo, ci isola e ci priva del contatto umano reale.
È essenziale che i giovani imparino a comunicare autenticamente, a guardare negli occhi degli altri, ad aprirsi all’esperienza di chi è più anziano di loro.
La mancanza di connessione umana autentica può portare a incomprensioni e a decisioni tragiche.
Abbiamo bisogno di ritrovare la capacità di ascoltare e di essere ascoltati, di comunicare realmente con empatia e rispetto. La scuola ha un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri figli. Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza.
La prevenzione della violenza di genere inizia nelle famiglie, ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti.
Anche i media giocano un ruolo cruciale da svolgere in modo responsabile. La diffusione di notizie distorte e sensazionalistiche non solo alimenta un’atmosfera morbosa, dando spazio a sciacalli e complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti.
Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere. Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti.
Alle istituzioni politiche chiedo di mettere da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere. Abbiamo bisogno di leggi e programmi educativi mirati a prevenire la violenza, a proteggere le vittime e a garantire che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo.
Ma in questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento.
La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi DEVE essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. Grazie a tutti per essere qui oggi: che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita.
Vi voglio leggere una poesia di Gibran che credo possa dare una reale rappresentazione di come bisognerebbe imparare a vivere:
“Il vero amore non è ne fisico ne romantico.
Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà.
Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto,
ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno.
La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta,
ma di come danzare nella pioggia…”
Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma.
Ti penso abbracciata a lei e ho la speranza che, strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me non solo a sopravvivere a questa tempesta di dolore che ci ha travolto, ma anche ad imparare a danzare sotto la pioggia.
Sì, noi tre che siamo rimasti vi promettiamo che, un po’ alla volta, impareremo a muovere passi di danza sotto questa pioggia.
Cara Giulia, grazie, per questi 22 anni che abbiamo vissuto insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. Anch’io ti amo tanto e anche Elena e Davide ti adorano.
Io non so pregare, ma so sperare: ecco voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare.
E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace.
Addio Giulia, amore mio.

Intervento del papà Gino al funerale di Giulia Cecchettin

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